Paolo Mondolfo. Il sogno industriale tra coraggio e cultura

18 giugno 2016

 

L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un significativo sviluppo delle metodologie di gestione della produzione. Un’evoluzione che Paolo Mondolfo, ingegnere gestionale, conosce molto da vicino. «Posso dire di appartenere a quella generazione di pionieri che hanno modellato questa figura professionale» afferma l’ingegnere. Presidente e fondatore dell’Associazione Italiana per la Gestione Industriale (Aigi) e master instructor del programma Apics (Association for Operations Management), Mondolfo fa il punto sul tessuto industriale italiano e sui presupposti su cui si modelleranno gli assetti economici e gestionali di domani.

 

Su cosa si giocherà soprattutto il confronto tra gli attori del nostro tessuto industriale e quelli stranieri?
«Ritengo che la sfida non debba essere vista, e non sia, tra imprese italiane e straniere. Le industrie vivono gli stessi problemi e le stesse sfide in ogni parte del mondo. Il confronto si ha all’interno dei settori industriali, oppure mercato per mercato. Inoltre non è corretto pensare alle imprese italiane come a un’unica realtà omogenea, come d’altronde non lo è in nessun Paese. La segmentazione per dimensione o per vocazione alla crescita piuttosto che alla specializzazione di nicchia, crea dei campi di azione omogenei che non tengono conto delle frontiere. Ciò detto, è anche vero che esistono delle caratteristiche nazionali, siano esse profondamente culturali o di politica economica e strutturale, il cui peso non va sottovalutato. Culturalmente la struttura industriale italiana rischia, oggi, di trovarsi a metà strada tra America e Cina, senza sapere da che parte muoversi».

 

Quali saranno le sfide maggiori che, secondo lei, dovranno affrontare in futuro le nostre imprese?
«Gli imprenditori si trovano, come sempre, di fronte al solito bivio: investire in quello che si deve saper fare e reinventarsi il futuro, oppure approfittare del calo dei prezzi immobiliari e sperare di vivere di rendita. La seconda scelta non mi interessa professionalmente. La prima opzione richiede invece il coraggio della ragione, la capacità di capire “che ne viene a noi” dei cambiamenti dell’economia politica mondiale. Bisogna saper gestire il cambiamento continuo aggiornando le strategie e adeguando in modo coerente cultura e modo di operare dell’impresa. Questo è troppo facile a dirsi, ma molto difficile da attuare. E il clima culturale italiano non aiuta a gestire il cambiamento, lo diceva già Machiavelli».

 

A tal proposito, quali sono i punti di forza e di debolezza della cultura industriale con cui si confronta?
«Il grande punto di forza della cultura industriale, in Italia come in tutto il mondo, è che ogni giorno c’è sempre qualcuno deciso a realizzare il suo sogno, la sua intuizione o la sua piccola idea. Che ha il coraggio di investire tutta la sua persona in questa idea, raccogliendo le risorse necessarie per portare avanti questa realizzazione. Non sono molti quelli che ci provano, ancora meno quelli che ci riescono, ma chi ne è capace merita tutto il nostro rispetto. Purtroppo per quasi una generazione le “Operations” sono state mortificate a fronte di “Marketing”e “Finance”. Per carità, l’importanza di questi elementi non sfugge a noi che ci occupiamo di produzione, però forse ci si poteva ricordare un po’ prima che, in fin dei conti, per creare valore bisogna realizzare qualcosa che valga di più delle risorse consumate. Per questo auspico una riscoperta dell’economia reale».

 

Cosa determina l’efficienza operativa di un’industria?
«Senza efficienza nel tradurre le strategie in piani, programmi ed esecuzioni, i progetti rimangono sogni. E nel mondo industriale i sogni possono risultare molto costosi quando escono dai cassetti. I mercati non vivono di “effetto annuncio” ma di consegna della produzione. L’efficacia di una struttura industriale dipende essenzialmente dalla coerenza tra prodotto, mercato e strategia aziendale da una parte, e sistema industriale, cultura, norme, procedure, sistema di valutazione e incentivi di gestione dall’altra. Purtroppo si vedono molte aziende adottare, o meglio tentare di adottare, l’ultimo ritrovato manageriale di moda, senza verificare la coerenza tra la sua applicazione e gli obiettivi strategici aziendali. Questo è forse il difetto più pericoloso ».

 

Cosa si rischia con questo atteggiamento?
«La scarsa attenzione e comprensione da parte del top management per le funzioni operative, porta a ricercare soluzioni basate su strumenti invece che sulla competenza delle persone. In Italia questa debolezza è aggravata dal fatto che abbiamo un ritardo cronico rispetto al resto del mondo nella diffusione di nuove tecniche gestionali, con una propensione a dipendere, per le informazioni, dai fornitori di prodotti confezionati».

 

Quali sono gli obiettivi principali di Aigi e Apics?
«Entrambe le associazioni sono nate inizialmente per la necessità di dare contenuti e visibilità alle funzioni di pianificazione della produzione nell’industria manifatturiera. Oggi possiamo affermare che la missione è compiuta. Il ruolo attuale delle associazioni e delle loro unità di formazione è quello di trasmettere alle nuove leve il patrimonio di competenza e di esperienza conquistato sul campo. La formazione e la certificazione sviluppate dalle associazioni si differenzia da quella universitaria per il suo forte legame con la concretezza applicativa, sia nello sviluppare le soluzioni, sia nel rivolgersi a chiunque operi in ruoli di responsabilità operativa».

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